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Abbiamo sempre vissuto nel castello

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E se il vero outsider di Jackson fosse il lettore?

Illustrazione di Anna Rossi

Con Abbiamo sempre vissuto nel castello (Adelphi, 2009), Shirley Jackson colpisce ancora. E lo fa fin dal titolo: con un senso di claustrofobia che attanaglia, con il sentore ammuffito di una saga famigliare deragliata.

Quel che ormai rimane dei Blackwood sono le sorelle Merricat e Constance e zio Julian, ermeticamente chiusi nella loro dimora e «odiati da […] tutti gli abitanti del paese» (p. 13). Ma non è sempre stato così. Tutto è peggiorato sei anni prima, quando gli altri membri della famiglia sono morti in quella stessa casa, dopo una cena preparata da Constance e quando, poi, a seguito del processo nessuna persona è stata giudicata colpevole.

Eppure da quel giorno la vita all’interno del castello sembra consumarsi come un idillio cadenzato da piccoli riti perfetti, tra i pasti cucinati dall’ottima Constance, i giochi infantili di Merricat e gli studi di zio Julian.

La dicotomia tra interno ed esterno è estrema: avulsa dal contesto sociale, la casa dei Blackwood rappresenta una regressione paranoica a un utero materno accogliente e rassicurante; inevitabilmente il paese e i suoi abitanti diventano minaccia all’ordine costituito. Non può che risultarne, allora, che l’unica deroga alla clausura, rappresentata dalle uscite in paese di Merricat per recuperare gli ingredienti per la sorella, combaci con climax vertiginose di tensione narrativa:

«Dai Blackwood si è sempre mangiato bene». Era stata Mrs. Donnell a parlare, pronunciando chiaramente le parole dietro di me, e qualcuna aveva ridacchiato mentre un’altra aveva fatto «Sshh». Non mi voltavo mai; era già abbastanza sentirle tutte lì dietro di me senza dover anche guardare quelle facce ottuse e grigie, quegli occhi pieni di odio. Vi auguro di schiattare, pensai, e morivo dalla voglia di dirlo ad alta voce. (p.18)

Pagina dopo pagina, i residui della famiglia Blackwood rivelano sfumature psicologiche perturbanti: Merricat passa i pomeriggi a seppellire oggetti e a imparare a memoria le virtù dei funghi velenosi; Constance rivela un’agorafobia totalizzante («Ci rinchiuderemo qui dentro a doppia mandata, ancor più di prima», p. 148), zio Julian passa ogni giorno cercando ossessivamente di fissare la memoria di quella sera per iscritto per poi pubblicarne un libro di grande successo.

«Se sopravvivo» diceva sempre a Constance «scriverò io il libro. In caso contrario, fa’ in modo che i miei appunti siano affidati a qualche grande cinico che non sia troppo interessato alla verità.» (p. 59)

In pieno gusto neogotico, l’apparente perfezione rivela un marciume sinistro, perverso che prenderà inevitabilmente il sopravvento quando un elemento estraneo verrà a deturpare la stasi interna al castello. L’odio sotteso di entrambe le parti non potrà che sfociare in accadimenti sconvolgenti. Forse irreversibili.

Abbiamo sempre vissuto nel castello consacra Jackson come impeccabile ritrattista di outsider sociali, creatrice di ecosistemi incancreniti in sé stessi all’insegna di una sensazione di costante scomodità.

Come se il lettore stesso diventasse elemento ostile e perturbante.

Perché, in realtà, il male di cui parla è quello insito in ognuno di noi.

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